Il 5 marzo 2013 Brian May e Roger Taylor ricevono il PRS for Music Heritage Award durante una cerimonia all'Imperial College di Londra. È qui che i primi Queen cominciarono a guadagnarsi una certa visibilità nella scena rock londinese. La rivista M Magazine, prodotta da PRS for Music Ltd (sigla di Performing Rights Society, una sorta di "SIAE" inglese) ha intervistato Brian nelle settimane che hanno preceduto l'evento. È tutta da leggere! Da M Magazine by PRS for Music del 28 febbraio 2013 (la seconda parte il 5 marzo) Traduzione in italiano di Claudio Tassone per Comunità Queeniana Italiana |
«Probabilmente una delle prime idee che ho avuto è stata una canzone chiamata The Real Life. Riguardava alcuni individui seduti da soli e tristi, e qualcun'altro che alzandosi diceva loro che non stavano vivendo una vera vita, "Venite con me, vi farò vedere cos'è una vera vita". Non vide mai la luce, ma credo di averla come demo da qualche parte. Subito dopo di quella, ho scritto alcune altre canzoni. Una chiamata Polar Bear, che i fans più estremi conosceranno, perchè l'abbiamo registrata! Se vogliamo, era una favola metaforica! Riguardiamo alcuni che vedevano un orso polare dentro la vetrina di un negozio, ma non era in vendita! E poi ho scritto Step On Me, che registammo, probabilmente con il mio primo gruppo, i 1984. Forse la prima canzone che conoscerete è Keep Yourself Alive, che trovò spazio sul nostro primo album, e fu il nostro primo singolo».
Come sei diventato compositore?
«La cosa buffa è che non mi reputo un compositore. Non sono uno che si siede la maggior parte dei giorni a scrivere canzoni. Accade, oppure no. Alcune cose mi appassionano o semplicemente mi accadono. Oppure sento un una melodia nella mia testa, o alcune parole. Avviene in modo naturale. Non sono affatto capace di farlo accadere per mia volontà. Alcune volte alimenti un'idea e non sei neanche sicuro di dove provenga».
«Beh, citerò quello che una volta mi disse Don Black. Qualcuno gli chiese di quanto fosse complicata la composizione di una canzone, e lui rispose "Tutto quello che conta è il come riesce alla fine! ". C'è molto di vero in questo! Tutto sta nell'avere una grande melodia, e un buon testo poi ne fa parte. Se hai questo non c'è arrangiamento o produzione che tenga. Dio sa da dove vengono fuori! Le belle melodie vengono dal paradiso, suppongo. Ma certamente le persone sono capaci di produrre buone melodie attraverso l'etere. Per esempio, non importa cosa si pensi degli ABBA, ma non si può negare che quelle melodie siano immortali ─ trasmettono qualcosa. Questo è quel che conta. È questione di "come riescono alla fine"».
Pensi che si possa imparare ad essere grandi compositori oppure che sia una cosa innata?
«Credo che ogni abilità creativa ti possa incoraggiare ad essere aperto e trarre vantaggio da qualunque ispirazione tu abbia. È come essere un atleta ─ hai una certa abilità naturale, ma ci lavori e ti ci eserciti. Provi a cogliere questa cosa alla sprovvista».
«A quei tempi gli assegni per le royalties erano molto bassi, e noi eravamo talmente indebitati che non potevamo neanche andarceli a spendere. Speravamo soltanto che a un certo punto della catena i nostri debiti venissero pagati! Fu solo quando avevamo realizzato il terzo album, Sheer Heart Attack, che ci rendemmo conto del fatto che avessimo venduto molte copie, ma non avevamo visto un soldo! Non eravamo solo squattrinati, eravamo fortemente indebitati, per cui tante persone che ci fornivano le cose di cui avevamo bisogno, come gli impianti, non erano più disposte a farlo in quanto non potevamo pagarli. Quella è stata una vera crisi per noi, e fu ciò che ci guidò a trovare una soluzione con il nostro management, che a quel punto era paralizzante. Ci accordammo a John Reid, che era il manager di Elton John all'epoca. Fortunatamente per noi, il quarto album A Night At The Opera andò davvero bene, e potemmo pagare tutti i nostri debiti».
Quali sono i tuoi legami con l'Imperial College di Londra?
«Lo frequentavo. Feci tre anni da studente universitario diplomato in fisica, poi ci tornai per quattro anni per fare un dottorato in Astronomia. Ma ebbi una sovvenzione solo per tre anni, quindi al quarto anno dovetti fare l'insegnante in un comprensorio scolastico a Brixton per guadagnarmi da vivere. Allo stesso tempo stavamo già provando con i Queen, quindi mi ero cominciato ad allontanare dagli studi».
Perchè questo luogo significa tanto per i Queen?
«Il primo vero concerto che facemmo fu all'Imperial College, nella Union Hall. Lo ricordo chiaramente, perchè ho visto tutti i generi di persone suonare in quella sala. Sono stato parte del Comitato Spettacolo e prenotavamo un gruppo ogni sabato sera a quei tempi. Gente come Spooky Tooth & Steamhammer e anche Jimi Hendrix. Per cui fu un sogno che si avverava per noi suonare su quel palco. Il posto si riempì tutto, per questo fu un importante trampolino di lancio per noi. Avemmo la prima recensione su quel nostro concerto – su una rivista chiamata Disc. Fu un grande affare! Già solo vedere gente dal di fuori che conosceva il materiale perchè aveva sentito il primo album fu una grande cosa per noi».
I Queen sono uno dei gruppi più prolifici della storia, hanno prodotto 16 album di successo, così come per 18 singoli, e hanno venduto 300 milioni di dischi in tutto il mondo. Brian ha scritto 22 dei loro primi 20 successi, tra cui We Will Rock You, e ha suonato in più di 700 concerti con la band. Come artista solista Brian ha anche vinto due premi Ivor Novello.
È stato nominato Comandante dell'Ordine dell'Impero Britannico nel 2005 per "il servizio reso all'industria della musica e per la sua opera di beneficenza" ed è patrono di una serie di associazioni benefiche tra cui la Mercury Phoenix Trust, che è stato istituito in memoria del frontman dei Queen, il compianto Freddie Mercury. L'organizzazione ha raccolto negli ultimi 20 anni più di 15 milioni di dollari per sostenere progetti di lotta contro l'AIDS nel mondo.
La prossima settimana Brian, insieme a Roger Taylor, il batterista dei Queen, riceverà il premio PRS Music Heritage Award nel luogo in cui suonarono il loro primo concerto a Londra nel luglio del 1970.
L'abbiamo raggiunto in anticipo per scoprire dettagli sulle sue composizioni, l'età d'oro della chitarra nella musica e dei suoi ricordi più durevoli su Freddie.
Perché pensi che i Queen siano stati così duraturi nella musica britannica?
«È difficile rispondere standoci dentro... Ma c'era una forte propulsione nei Queen, dal punto di vista della composizione in particolare. Non c'era solo una persona che scriveva e il resto di noi a interpretare. Eravamo tutti a comporre, e credo che sia stato Ben Elton che ha sottolineato che siamo stati l'unica band in cui tutti i membri hanno scritto almeno un singolo che abbia centrato il numero uno in classifica. Per cui siamo sempre stati in lotta fra di noi per avere una fetta di importanza nel gruppo. Eravamo come quattro uccellini in un nido, tutti e quattro a urlare a gran voce! Da quel luogo fortemente competitivo deriva un punto di forza. Tutto quello che facevamo era ridotto letteralmente a pezzi dalle nostre critiche. Per questo tutto ciò che la critica ci contestava, in realtà non ci toccò mai, semplicemente perchè eravamo sicuri e consapevoli di essere stati già abbastanza critici con noi stessi e di aver sentito cose ben peggiori già dai nostri compagni all'interno del gruppo!
Suppongo che per, qualche motivo, la gente percepisse che parlassimo di cose reali per persone vere. Non parlavamo della vita delle rock star, abbiamo scritto delle speranze e dei sogni di tutti. Inconsapevolmente siamo diventati una band di tutti, perchè tutti i sentimenti che mettevamo nelle canzoni sono cose che la gente sente come proprie - 'I want to break free', 'I want it all' - abbiamo parlato delle emozioni personali delle persone. E, per fortuna, la nostra musica sembra superare i salti generazionali. Le emozioni che abbiamo cantato sono comuni a tutti, sia che abbiano 9 anni, sia che ne abbiano 95».
Ti ho sentito citare il White Album dei Beatles o i Led Zeppelin come grandi influenze. Mi chiedo se pensi che l'età d'oro della musica per la chitarra sia ormai superata. O pensi che sia ancora attuale oggi?
«Penso che sia ancora abbastanza in salute. L'industria musicale è in una posizione particolarmente difficile, perché tutti vogliono la musica gratis ed è molto difficile essere una novità oggi, perché in questo contesto come si può riuscire a guadagnare soldi? Ma credo che le forze siano ancora tante e fresche, e ancora ci sono grandi gruppi in giro al giorno d'oggi. La chitarra è ancora una componente importante. La chitarra sembra avere questa la capacità di esprimere le emozioni delle persone, che loro lo vogliano o no!».
Sì, la musica della chitarra può essere molto diretta!
«Sì! È molto basilare. La chiamano "ascia" e in effetti è un po' come avere una scure in mano - si possono forgiare le cose, hai un sacco di potere nelle tue mani».
Qual è la tua canzone dei Queen preferita?
«Non lo so, è così difficile da dire!».
OK, qual è la tua canzone preferita da suonare live?
«Quelle che ho sempre piacere di ritrovare sono We Are the Champions e We Will Rock You, perché non importa quale sia il contesto, dove ti trovi, con chi sei, quanto sia buona la qualità del sistema audio... Quelle due canzoni stabiliscono sempre una connessione. Ho sempre la sensazione di aver soddisfatto le aspettative della gente quando suono quelle canzoni, quindi suppongo che siano le mie preferite. Hanno creato entrambe una situazione differente, dovunque le abbiamo suonate».
Come hai fatto a scrivere We Will Rock You?
«È successo a un certo punto, mentre stavamo facendo un tour nel Regno Unito e abbiamo suonato in un luogo chiamato Bingley Hall, nelle Midlands. Le cose si stavano gradualmente evolvendo in termini di come il nostro pubblico si comportava, ma in questa serata in particolare la gente non ci ha dato tregua, cantando ogni rigo di ogni canzone! È stato esaltante, ma c'è voluta una grande forza di volontà per ottenerlo, perchè venivamo dall'usanza di suonare semplicemente per gente che ci avrebbe ascoltato. Siamo scesi dal palco e loro cantavano ancora. Intonavano "You'll Never Walk Alone", il che era meraviglioso, e producevano un suono incredibile. Dopo ci siamo seduti a parlarne; abbiamo discusso se resistere a questa evoluzione che stava avvenendo o abbracciarla e incoraggiarla. Quella notte ho scritto We Will Rock You e Freddie ha scritto We Are The Champions, con l'idea che le persone ci stessero attivamente incoraggiando a farli essere parte dello spettacolo, di essere interattivi con noi. Quando siamo andati di nuovo in tour, queste canzoni erano in scaletta, e tutto si è innescato. Abbiamo fatto veramente si che il pubblico fosse una grande parte dello spettacolo, insieme alla band. È divertente, perché poi è diventato abbastanza comune, ma a quei tempi non lo era. Venivamo da un'epoca in cui le persone nei concerti si sedevano sul pavimento senza muoversi. Ascoltavano, scuotevano un po' la testa, ma non c'era alcuna interazione vera e propria. Questo nostro modo di fare era clamorosamente nel senso opposto. Ora accade molto spesso. Basta portare un gruppo in un grande stadio, e vedrai che sicuramente accade; ma con noi era una novità, nessuno l'aveva mai fatto prima».
Eppure è abbastanza unico andare a casa e creare qualcosa di così specifico, cioè creare una interazione istantanea con il pubblico, non credi?
«È stato molto istintivo. Mi sono svegliato con la canzone che mi girava nella testa. Ricordo di essere andato a dormire pensando, "Che cosa si può fare quando sei in piedi con altri stipati insieme in un auditorium?". Possono battere i piedi, possono alzare le mani, battere le mani, e poi si può cantare. Poco dopo mi sono svegliato e il mio cervello aveva messo insieme questa cosa, e l'ho potuta sentire nella mia testa. Mi sembrava la cosa più semplice che potessi chiedergli di fare, e che si sarebbero divertiti! E poi la canzone divenne qualcosa che riguarda le speranze e i sogni delle persone mentre la loro vita procede.
C'è un pizzico di ironia nel brano, che è sempre difficile da cogliere. We Will Rock You sembra in apparenza abbastanza ottimista. Ma se si ascoltano attentamente le parole c'è un elemento di riflessione su ciò che possiamo effettivamente realizzare nella nostra vita, ed ciò per cui noi siamo qui».
«Si! Credo anche che si resta sempre nervosi nel farlo, quello non cambia mai. La cosa divertente è che in un certo senso diventa sempre più intenso mentre si va avanti. Forse perchè ci sono maggiori aspettative, e ha di più da perdere. Tendi ad essere più consapevole delle tue ansie quando invecchi. Da piccolo vai semplicemente là fuori e fai rumore! Credo che il nervosismo faccia parte di ciò che ci guida, ed è ciò che ci fa fare qualcosa di speciale sul palco. Il pubblico trae vantaggio da questo».
Qual è il tuo ricordo più duraturo di Freddie?
«Il suo perfido sorriso. Quel suo occhiolino complice quando sapeva che avrebbe detto qualcosa di polemico, cattivo e rischioso, e ti guardava con quel luccichio negli occhi. Per un attimo probabilmente pensavi che fosse serio, e in un certo senso lo era, perchè si prendeva tanti rischi. Ma poi aveva quel modo buffo di leccarsi le labbra e tirava fuori quel gran sorriso a cui seguiva una risatina isterica, e ti avrebbe detto qualcosa di totalmente oltragioso, in modo da lasciarti col dubbio se credergli o meno! Aveva un senso dell'umorismo molto spiccato e una grande gioia di vivere la vita. Lasciava perdere ogni sciocchezza, non voleva che si rimanesse bloccati e impantanati. Non ha lasciato niente in disordine nella sua vita. È un grande esempio che vorrei poter seguire meglio di come faccio».