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Brian May - Intervista su News Of The World a In The Studio with Redbeard [27 novembre 2017]

27/11/2017

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Intervista di Redbeard a Brian May sull'album News Of The World risalente al 2011, ripubblicata insieme un nuovo contributo del fotografo Neal Preston in occasione del 40° anniversario della pubblicazione. È inclusa la fonte audio dalla pagina web ufficiale del programma radiofonico.

Trascrizione e traduzione in italiano di Claudio Tassone per Comunità Queeniana Italiana

Ciao. Sono Brian May dei Queen e questo è In The Studio, con Redbeard.

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La copertina dell’album fu un’idea di Roger, il quale vide questa vecchia rivista fantascientifica Astounding Science. L’illustrazione in copertina era opera di Frank Kelly Freas. Il robot gigante aveva degli uomini nella mano e credo che guardasse verso un altro robot, magari ne era il figlio, chiedendogli “me li aggiusti, papà?”, come se non avesse compreso di averli appena uccisi. Più che una figura mostruosa, appare come se fosse solo grosso e inesperto, inconsapevole delle proprie azioni.  Sembra chiedersi: “cosa ho fatto? Come posso migliorare in futuro?”.  Ad ogni modo ci è piaciuta. Scoprimmo che Frank Kelly Freas era ancora in giro e gli commissionammo di riadattare quel disegno per noi, con i nostri personaggi nella mano del robot, che aveva sempre quella faccia perplessa come l’originale.

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Il modo tradizionale di lavorare in studio all’epoca in Inghilterra prevedeva che la chitarra venisse registrata in una stanza,  separatamente dalla batteria… e così via tutti gli altri strumenti. Invece noi volemmo provare a fare esattamente la cosa opposta, e cioè metterci tutti e quattro insieme nello studio registrando contemporaneamente. Questo conferiva al risultato finale un effetto live.

Il nostro tecnico del suono era Mike Stone. Era molto in sintonia con quello che volevamo fare. Così un bel giorno cominciammo a lavorare in quel modo. Non era la nostra solita maniera di registrare, per cui non potevo riascoltare gli spezzoni. Passavamo direttamente dalla musica alla voce per le strofe e i ritornelli. Poi, quando finalmente andammo al mixer per ascoltare il risultato pensammo che fosse bellissimo.  Il suono sembrava dal vivo, così caldo e spontaneo. Si sentiva che eravamo tutti insieme nello stesso spazio. Volevamo che le registrazioni fossero brevi. Con A Night At The Opera e A Day At The Races le cose erano state complicatissime, con tutte quelle sovraincisioni. Stavolta invece volevamo qualcosa di più sbrigativo e diretto.

So che molte persone pensarono che noi volessimo seguire la moda del punk, ma in effetti ci avevamo pensato già ben prima che questo nuovo genere musicale avesse fatto la sua comparsa. Ricordo quando registrammo We Will Rock You e altre cose al Wessex Studio di Londra.
I Sex Pistols erano impegnati a lavorare nello studio affianco. Ci dicevamo a vicenda “Oh ! Come sono bravi questi ragazzi…”. Freddie un giorno ebbe un incontro con Sid Vicious e gli disse qualcosa del tipo “Hey, Simon il feroce… o Simon bruttissimo… non ricordo perfettamente. E Freddie faceva per fingere di non ricordare il suo nome… E l’altro rispondeva “yeeeah, yeeeeah…”. Ora non ricordo alla perfezione i dettagli.

In ogni caso noi avevamo già definito che avremmo lavorato in quel modo. Volevamo quasi liberarci di tutto quello sfarzo presente in A Night At The Opera e A Day At The Races. In quel momento volevamo fare qualcosa di differente. Per cui News Of The World per noi fu un ritorno al passato, a quando ci mettevamo tutti insieme e cominciavamo a registrare. In qualche modo somiglia un po’ a ciò che facemmo nel primo album. La magia si materializzava immediatamente.



Oddio… Al Dead, All Dead. Non credo di averne mai parlato con nessuno in precedenza. Direi che parla della morte degli amici. È davvero imbarazzante per me parlarne… Cominciai a comporla quando morì la mia gatta. Ero bambino e non superai mai quel dispiacere. È una di quelle cose che ogni tanto tornano a mente. Quando la proposi per l’album sapevo che era qualcosa di inconsueto. Ma la storia è proprio questa. Non ne parlammo mai all’interno della band. Mai nessuno mi chiese cosa volesse dire. È strano. Il brano è molto personale.


 
La domanda sul perché nell’album avessimo deciso che l’avrei cantata io è molto interessante! Ovviamente Freddie sapeva cantare decisamente molto meglio di me. Però a volte ci sono cose talmente personali che solamente chi le sente proprie riesce ad esprimerle trasmettendo le sensazioni nel modo migliore.
Poi ci sono volte in cui questo vale in assoluto ed altre in cui subentra la percezione del pubblico in modo significativo. Ad esempio, nel primo album c’è una mia canzone che si chiama Keep Yourself Alive. Io l’avevo pensata e concepita in modo molto ironico. Per me significava che nella vita si poteva avere qualcosa in più di quello che ci capita. Eppure quando ascoltai la stessa canzone dalla voce di Freddie fu lampante che la sua interpretazione avrebbe spaccato di fronte a migliaia di persone del pubblico. Spesso si crea un rapporto diretto fra l’espressione del cantante e la percezione che questa genera nel pubblico.
 


Who Needs You, di John Deacon. Credo che fosse correlata a quello che ascoltavamo da bambini. L’arrangiamento è meraviglioso, con parti che sembrano trombe e tromboni che abbiamo realizzato come fossimo una tradizionale formazione jazz. Ci sono anche un paio di altre cose, come sembianze di sassofono o quant’altro. L’arrangiamento è molto complesso e i cori sono molto consistenti e caldi. È un qualcosa che per noi era solito, come invece non lo era quel tipo di composizione basata su soli tre accordi tipica però dei gruppi rock. In questo pezzo abbiamo scelto di fare le cose per bene, tenendo sempre presente la direzione che il brano andava a prendere.




It’s Late è un’altra di quelle canzoni che parlano di fatti della vita. Penso che abbia a che fare con ogni sorta di esperienza che io ho vissuto, e che credo un sacco di persone abbiano vissuto. Ma alla fine la reputo come qualcosa di personale.
È stata scritta in tre parti: nella prima c’è il ragazzo a casa propria con la sua donna; nella seconda lo stesso ragazzo è in un altro luogo con una donna diversa che lui ama e per la quale farebbe qualsiasi cosa; nell’ultima parte lui torna nuovamente dalla propria donna per cercare di razionalizzare i pensieri e dare un senso al tutto. Credo che la storia possa andare avanti all’infinito, fino ad arrivare a oggi.

 
Per molto tempo abbiamo maturato esperienza in co-produzione. Roy Thomas Baker era un animale con una profonda propensione al cambiamento. Posso dire di averlo apprezzato molto, perché eravamo anche molto amici. Lui direbbe lo stesso di me se fosse al mio posto. Lui iniziò facendo da ingegnere del suono. Si occupava anche della produzione, comportandosi da tecnico del suono allo stato dell’arte. Conosceva ogni segreto del lavoro in studio. Era esattamente il genere di persona di cui avevamo bisogno nei primi tempi. All’inizio si occupava di tutto lui in prima persona. Manovrava i faders, faceva qualsiasi tipo di regolazione. Era padrone del mixer, occupandosi in toto della parte tecnica. Nel momento in cui lavorammo a A Night At The Opera questo cambiò profondamente. Lui non si occupava più degli aspetti tecnici. Era più che altro un produttore. Il suo ruolo si era evoluto. A quel punto interveniva con dei giudizi e dei suoi pareri riguardo ciò che registravamo. In quella fase interagimmo moltissimo, occupandoci in prima persona della nostra produzione, impiegando altre persone per gli aspetti tecnici.
 
In quel periodo eravamo in piena corsa, fra nuovi album e tour. Stavamo ponendo le basi della nostra storia. Non conoscevamo sosta. Tutto ciò che facevamo era migliore e più grandioso di quanto realizzato in precedenza. Credo che fosse corretto che le cose andassero così. Non potevamo tornare a Chicago e suonare le stesse cose dell’anno precedente. Provavamo a vedere fino a che punto saremmo potuti arrivare. Eravamo eccitatissimi. Era come vivere in un sogno. Potevamo continuare a fare nuovi album e andare ancora in tour incontrando altre persone.

Andare in tour era ottimo in quegli anni, perché l’esperienza che maturavamo in quei concerti di rifletteva in ciò che poi registravamo negli album. Se c’erano cose che funzionavano dicevamo: “Ah! Questa la terremo in considerazione per il prossimo album”. Avevamo piena libertà in questo senso nel nostro approccio. Ci nutrivamo anche delle reazioni del pubblico. All’epoca questa era una grande evoluzione. Ricordo che all’epoca c’erano tantissime persone che cantavano insieme a noi. C’era un gran bel rapporto. Ci veniva un groppo alla gola di fronte a certe scene. Era evidente che venissero ai concerti non solo per vivere un sogno, ma anche per esserne parte attiva. Per cui ci dicemmo: “cosa si potrebbe fare per rendere lo spettacolo ancora più interattivo coinvolgendo ancora di più il pubblico?”. Fu così che nacque We Will Rock You con i suoi “stomp” e “clap”. Ed è così che arrivò anche We Are The Champions, in quanto la gente aveva bisogno di un canto collettivo, poter cantare “NOI siamo tutti campioni”. Nacquero in questo modo le due canzoni, che poi erano un po’ gli inni all'interno di questo album. A quel punto, quando andammo negli Stati Uniti trovammo una profonda collaborazione da parte del pubblico.


 
Durante la lavorazione di We Are The Champions mi capitava spesso di restare in studio fino alle sei del mattino, mentre gli altri provavano nuovi demo. Non me ne andavo mai dalla sala di controllo se il mio lavoro non era stato completato. Arrivavo a casa sfinito e il giorno dopo al mattino tornavo già in studio, dove gli altri mi facevano ascoltare il nuovo materiale, ed io gli dicevo “Ah! È proprio bella!”. Eravamo molto gelosi delle nostre creazioni. In quella fase c’erano delle basi di nuove canzoni a cui era possibile lavorare.
Restai scioccato da We Are The Champions, perché credo che nessun altro gruppo sul pianeta sarebbe mai arrivato a cantare una cosa del genere. Freddie invece mi disse che non era proprio così e che non avrei dovuto pensarla in quel modo perché era un ragionamento affrettato. Lui riusciva già ad immaginarsi mentre era a un concerto e la gente avrebbe cantato “we are the champions” con le braccia in alto. E così compresi il suo vero significato.
Anni dopo ne riparlammo, e lui mi disse: “Il rock and roll è come fare parte di una squadra, ma non si combatte contro nessuno. Mentre a una sfida sportiva tutti incitano la propria squadra con l’obbiettivo di annientare gli avversari, a un concerto rock invece  stanno tutti dalla stessa parte”.


 
In genere, quando mi veniva una ispirazione, la mettevo giù nel modo più semplice possibile. Avevo sempre con me un piccolo registratore portatile e cantavo direttamente su di esso. A quel tempo tutto ciò che contava era nella mia testa. Non restava che metterlo sul nastro e vedere cosa succedeva. Per We Will Rock You pensai a una cosa che al giorno d’oggi sarebbe stata normalissima, cioè battere con i piedi a terra e poi battere le mani fra loro; giusto? Per questo credevo che alla gente sarebbe piaciuto fare lo stesso mentre cantavano insieme a noi. Guardando oggi a quello che è diventata mi accorgo che è un canto valido per tutti gli sport del mondo e questa cosa mi rende molto orgoglioso. Credo che oggi la norma è che battano tutti le mani, senza pestare con i piedi, forse perché le pavimentazioni sono in cemento e le scarpe non fanno rumore più di tanto. Ma lo capisco e va bene che le persone oggi facciano “clap clap clap” e non più “stomp stomp clap”. Solo i New Kids On The Block la fanno correttamente [ride]. 






 
■ Nuova intervista al fotografo NEAL PRESTON


Il mio rapporto con i Queen era molto forte. Sono una delle band con cui ho trascorso più tempo in tutta la mia vita. Lavoro con loro ancora oggi. Ho seguito i Queen negli States in tour nel ’77, ’78, ’80, ’82, in Sud America nel 1981, in parte nel  1985... ah, scusa… nel 1986. E sono stato con loro al Live Aid.

Sono tornati in America con Adam due anni e mezzo fa. Brian è un mio grandissimo amico e anche Roger è un ottimo amico. Brian è l’unica rockstar ad aver portato al proprio concerto sua mamma e suo padre.  Avevo un ottimo rapporto anche con la squadra dei Queen.

Non è facile fare il fotografo al seguito di una band, perché vivono a ritmi altissimi.  Freddie era plateale sia sul palco che nel backstage, anche se ovviamente in modo differente. Abbiamo trascorso moltissimo tempo insieme, tantissimi mesi. Erano davvero dei grandi ed entusiasti della reazione del pubblico americano.

Adoro la band. Freddie non si è mai negato per una foto. Ci sono anche scatti molto divertenti. Praticamente con loro non si sbagliava mai. Ogni spettacolo dei Queen era sempre perfetto. Dopo averli visti in azione qualche volta, riuscivo a seguirli perfettamente.
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Photo (c) Neal Preston


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─ @claudiobadger
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