Da Classic Rock Magazine UK n.195, aprile 2014
Traduzione di Claudio Tassone per Comunità Queeniana Italiana
«Per un lungo periodo è stato il mio album preferito dei Queen. È stato superato da Made In Heaven, che penso sia forse, abbastanza stranamente, il più profondo degli album dei Queen, perché lo facemmo quando Freddie se ne era andato; ma ho sempre amato quel disco. In un certo senso è stato il salto più grande che abbiamo mai fatto dal punto di vista creativo». Dice qualcosa il fatto che Brian May si sia impadronito del telefono così entusiasticamente per iniziare a parlare di Queen II, un album che ha realizzato più di mezza vita fa. Ha chiesto scusa assentandosi da un incontro e deve partecipare ad un altro subito dopo. Allegro, riflessivo e impegnato dall'argomento, giusto la mattina seguente avrebbe pubblicato sul suo blog (sul quale sa essere irascibile nei testi quanto è incantevole di persona) che era in attesa di una telefonata dal suo specialista per i risultati di una serie di test sul cancro. Sarebbe arrivata alle sei di quella sera e ha portato la migliore delle notizie. A May, che ha perso suo padre a causa del male all'età di 66 anni ─ la stessa età che ha lui ora ─ viene dato un risultato negativo; il suo dolore lombare è dovuto a qualcosa di molto meno sinistro.
Per i fan dei Queen ─ una band imprigionata nell'immaginazione collettiva come in qualche modo senza tempo, con la costante della loro musica, la loro immagine mantenuta in perpetuo attraverso i loro video e le pellicole dei concerti ─ è difficile concepire il significato di invecchiare. Ma nonostante l'elettrizzato bagliore giovanile di appartenere alla generazione dei baby boomer, May e il suo compagno di gruppo Roger Taylor sono dei mortali, ora nel mezzo della loro settima decade.
Ora c'è distanza fra loro e la storia che hanno accettato di raccontare, e molto è accaduto nel mezzo. Quando parlano di loro stessi durante la preparazione di Queen II, lo fanno con divertito distacco, quasi come se stessero discutendo delle pagliacciate dei loro nipoti adolescenti. I dettagli di tutte le bravate si sono persi nel tempo e probabilmente anche la discrezione. L'atto di edonismo che resta nella memoria è la baldoria creativa che gli ha permesso di mettere su nastro quel suono che avevano portato nella testa fin da quando ebbero il concept di Queen. Tutti i loro eccessi venero fuori sul disco; è stato quello ─ piuttosto che la pazzia di sesso, droga e rock'n'roll ─ ad averli rodati e fatti progredire.
«Non credo che l'album suoni come qualsiasi altro» dice Roger Taylor, seduto in un ombroso angolo del suo studio in una luminosa giornata invernale nel profondo Surrey. «A quel punto non eravamo davvero come nessun altro... assumemmo una mentalità, una identità di gruppo e eravamo solamente noi stessi».
Vestito in modo casual ma costoso, parlando sottovoce e istintivamente educato, sarebbe facile scambiare il batterista per l'odontoiatra che sarebbe divenuto in una vita più convenzionale. Invece è stata la rock star più convenzionale dei Queen: bellezza androgena nella sua gioventù, Taylor ha amato le auto sportive ed è uscito con le modelle; è colui che ha portato la sua voce roca nei tanti layer che avrebbero caratterizzato il sound dei Queen; è colui che perfino ora direbbe, dopo decenni di singoli da hit e successi nelle classifiche, che considera i Queen come "un gruppo da album".
«Ricordo chiaramente Queen II perché era un periodo formativo», comincia. «Le cose stavano appena iniziando a cristallizzarsi. Il primo album venne realizzato prevalentemente nei momenti in cui lo studio era libero. Queen II era più tutto d'un pezzo, piuttosto che canzoni separate messe su un album, cosa che era il primo. Iniziammo veramente a spingerci oltre i limiti dello studio in termini di sovra incisioni e in quello che potevamo fare vocalmente, che prima di quel punto in realtà potemmo solo cercare di rappezzare. Capimmo davvero di avere un sacco di energia vocale e quello che potevamo creare con le voci. C'era un sacco di roba complessa in ciò».
Ora i primi anni '70 sono qualcosa di distante, un altro paese, e il 1974 era particolarmente incolore e truce: era l'anno di due elezioni politiche, delle settimane di tre giorni, dello stato di emergenza in Irlanda del Nord, del bombardamento al pub di Birmingham, la Germania era divisa in due parti ─ Est e Ovest ─, Leonid Brezhnev guidava l'URSS, Richard Nixon si dimise da Presidente degli Stati Uniti dopo il Watergate, scomparve Lord Tucan. La gente per strada non aveva mai visto un computer, la maggioranza delle famiglie inglesi avevano ancora i televisori in bianco e nero.
In quel mondo grigio con poche distrazioni, il rock'n'roll esercitava la sua attrazione. Bon Scott era entrato negli AC/DC, Neil Peart divenne il batterista dei Rush, gli Yes fecero il tutto esaurito al Madison Square Garden, i Genesis avevano pubblicato The Lamb Lies Down On Broadway, i Deep Purple avevano fatto uscire Burn and Stormbringer, i Kiss e i Bad Company sfoderavano i loro album di debutto, il punk era ancora lontano due anni.
I Queen non si collocavano in nessuno di questi campi. La musica per loro non era una fuga dal vicolo cieco delle strade. Roger Taylor aveva preso la qualifica di dentista, Brian May era un laureato in fisica, il bassista John Deacon in elettronica e, nato a Zanzibar, Freddie 'Mercury' Bulsara era un ex studente di arte e grafica. Fin dall'inizio hanno avuto una grande visione artistica che è proveniva dall’arte e dalla poesia. Avevano qualcosa in comune con gli studenti che suonavano il prog rock, condividevano il senso estetico dell'arte, l’aspetto glam di New York, volevano scrivere dei successi. Eppure se ne stavano ancora da parte: erano testardi, sicuri di sé, in auto–controllo, forse non proprio facili da amare.
Taylor e May si erano incontrati in precedenza, e avevano suonato insieme, nel gruppo Smile. Lì, come dice Taylor, Mercury divenne «non un nostro assiduo pretendente, che sarebbe ingiusto...», cerca la giusta descrizione, «Il nostro amico. Lui era il nostro amico. Poi Freddie e io siamo diventati molto amici».
Taylor e Mercury legati dall’abbigliamento, May e Mercury con il comune amore per Jimi Hendrix. Il Mercury del 1973 era ancora il "baco che doveva divenire a farfalla" come da propria stessa descrizione, e la sua personalità portava con se contrastanti lati di profonda timidezza mascherata da un’ostentazione altrettanto innata. Aveva un profondo bisogno di reinventarsi e diceva che voleva cambiare la sua vita da com’era stata fino a quel momento, lì dove era iniziata all’età di 21 anni a Feltham. Poteva suonare quasi tutte le canzoni ad orecchio con il pianoforte, chiamava “cara” allo stesso modo sia i maschi che le femmine fin dall'età di 12 anni, e stava creando un personaggio che in qualche modo esagerasse la sua sessualità e teatralità, allo stesso tempo garantendogli riservatezza fino quasi alla fine della sua vita.
Fu Mercury a coniare il nome della band. «Ce l'ho in un diario», ricorda Taylor. «"Ho deciso che il nome migliore per la band è Queen ..." Fino ad allora volevamo chiamarci Build Your Own Boat». Il nome 'Queen' portava il marchio di Mercury – poteva essere interpretato in modi diversi, sia regale che provocatorio.
Quello che possedevano era una solida fiducia in se stessi che ha permesso loro di prendere il mezzo per andare in studio con le loro attrezzature da palco e di assumere il proprio pubblicista, Tony Brainsby (fu lui a fare in modo che, poco prima che cominciassero Queen II, apparissero sulle pagine della rivista Mirabelle, con May che raccontava le sue passioni per "i gatti , Herman Hesse e i cocktail di gamberetti" e Mercury che confessava la sua ambizione di "partecipare al Liza Minnelli Show").
Inoltre si fecero coinvolgere in un contatto di registrazione non convenzionale e complesso. La band aveva inizialmente firmato per Norman e Barry Sheffield, due fratelli proprietari dei Trident Studios, nel cuore di Soho a Londra, il cui utilizzo era l'esca per i Queen a trattare un contratto discografico separato con una società che era stata rilevata dalla EMI, un modo per raggiungere l’accordo. Nel periodo in cui iniziarono Queen II, la EMI li aveva messi sotto contratto dalla Trident, eppure la band mantenne un'autonomia insolita. Hanno combattuto duramente per avere il loro tempo in studio e si sono rifiutati di entrare a far parte del dipartimento A&R della EMI. «Eravamo troppo forti, non volevamo mai che ci venisse detto cosa fare» ammette Taylor.
Il primo disco gli aveva permesso di forgiare una partnership di lavoro con il produttore interno della Trident Roy Thomas Baker e il suo ingegnere Mike Stone. Fondamentalmente, Baker aveva iniziato la sua carriera alla Decca, dove aveva imparato a registrare la musica classica. Quando May ha iniziato a suonare le sue chitarre multi–traccia e la band ha prodotto immensi e complessi arrangiamenti vocali, sapeva esattamente come metterli su nastro.
Nel mese di agosto del 1973 i Queen avevano trovato il modo di avere per se il piccolo Trident studio in Wardour Street a St Anne's Court. Avevano per se un mese di tempo in cui registrare di giorno ed erano decisi a fare un album che abbinasse la loro alta opinione del proprio talento (poco prima che cominciassero, Taylor disse a Record Mirror che il disco sarebbe andato benissimo «se sapremo tenere sotto controllo il nostro ego»). Conoscevano bene la Trident dal loro primo disco e l'esperienza non era stata totalmente positiva.
«Non ero soddisfatto del suono della mia batteria», dice Taylor di Queen I. «I Trident erano famosi per questo suono di batteria davvero morto che era molto in voga in quel momento. Tutti i dischi di Elton erano così. Anche sui dischi di Bowie era davvero molto basso, un suono di batteria secco. Volevo qualcosa di molto più vivo. Con il secondo disco stava iniziando a diventare quello che io volevo che fosse».
Le preoccupazioni di Taylor con la minuzia del suono erano tipici. La visione era grande, ma non aveva un’ampia portata, l’attenzione al dettaglio sarebbe diventato l'elemento centrale. Anche se un mese sembra un periodo di tempo molto limitato per fare un disco profuso con tanta cura, per i Queen era un’opportunità molto grande rispetto a quello che gli era stato concesso fino a quel momento.
Uno dei primi ricordi del batterista è di May che metteva su Procession, la sezione strumentale che apre il disco (anche se si dimentica un attimo come si chiama). «Era là in un angolo a provare e riprovare...».
Anche se le sessioni dovevano essere diurne, Taylor ne ricorda diverse nella notte. Nulla è stato lasciato al caso. Una delle prime cose di Mercury è stata trascinare Roy Thomas Baker per un braccio giù al Tate Museum per vedere il dipinto di Richard Dadd The Fairy Feller’s Master–Stroke, che aveva ispirato il cantante a scrivere una canzone opportunamente diffusa con lo stesso nome.
«Fu davvero come stappare la bottiglia», ricorda May, «Avevamo fatto il primo album durante un sacco di tempo di inattività dello studio, ed è stato un grosso pasticcio in fondo. Finalmente eravamo lì e avevamo il pieno utilizzo di tutto e abbiamo avuto la possibilità di usare tutto come volevamo. Abbiamo avuto un po' più peso, finalmente. Siamo diventati molto interattivi con Roy. Quindi era come essere un pittore, ma per la prima volta con la piena tavolozza con cui lavorare.
Molto è stato fatto nei primi giorni, ovviamente, e John non scriveva o almeno non ci mostrava quello che stava scrivendo» dice May. «Roger ha partecipato molto alle fasi iniziali. Era in uno spazio tutto suo, così la sua traccia [The Loser In the End ] in un certo senso è in uno spazio leggermente diverso dal resto dell'album. Freddie e io interagivamo un bel po'. Abbiamo avuto un sacco di discussioni circa le fantasie che avevamo avuto su cosa avremmo potuto fare per quanto riguarda la costruzione di un album. L'intera idea dei lati Nero e Bianco, i riferimenti alle regine in varie forme, tutta quella roba era stata nelle nostre teste per un tempo abbastanza lungo. È stato davvero incredibile andare lì e portarlo alla vita con tutte quelle sovra incisioni. Stavamo caricando le tracce di voci e orchestrazioni e tutto questo era per noi un sogno che si avverava. Era stato nella mente per tanto tempo e finalmente siamo riusciti a realizzarlo».
Le canzoni che May e Mercury avevano scritto erano fantastiche, romantiche, ultraterrene, progettate nei loro temi e melodie per essere registrate in modo minuzioso. Le influenze sono molte e varie: The Fairy Feller’s Master–Stroke proveniva dal dipinto di Dadd («Se lo si guarda, è così complesso, con molti layer, che è ciò che Freddie stava cercando di trasformare in suono» dice May); White Queen ( As It Began ) proviene da una poesia di Graves che May ha adattato a una ragazza che aveva conosciuto al college; Procession, Father To Son, The March Of The Black Queen e Ogre Battle erano maggiormente delle grandi melodie che richiedevano l’eccesso. Baker riceveva istruzioni da Mercury: "Tutto quello che vuoi provare, buttacelo dentro".
«Presumo che fossimo insoliti. Ho sempre pensato che siamo stati molto fortunati nelle nostra infanzia», dice May delle idee che riportavano nelle canzoni. «In quei giorni non c'era veramente un mondo del rock, siamo stati esposti a tutto ciò che avevamo intorno. Non c'erano tanti canali televisivi, non c'erano tante stazioni radio. Si veniva calati nelle cose e si riceveva così una introduzione alla vita e all’arte davvero ampia. Ciò che abbiamo espresso era qualcosa di molto personale, ma era alimentata dall'arte a cui eravamo stati esposti. Una massiccia gamma di roba, da Mantovani alla Polka Thunder And Lightning di Beethoven, a Tchaikovsky, alla musica da camera, al jazz tradizionale, è stato davvero incredibilmente ampio».
La tecnologia a 16 tracce era precaria e i Queen la stavano spingendo verso i suoi limiti. «Strutturavamo varie parti del quadro generale e poi le mettevamo giù sullo stereo» dice May. «E non si poteva salvare in nessun modo la situazione precedente a questo processo. Non potevamo avere delle slave [copie della registrazione master, ndt] in quel momento. Abbiamo messo giù un sacco di quelle parti vocali e non si poteva mai tornare indietro per ribilanciarle, si doveva montare con quello che già avevamo sullo stereo. La parola giusta è 'orripilante'».
Nel mezzo c’era Baker, la cui peculiarità si cominciava a manifestare. Amava l’eccesso tanto quanto la band e descrisse quello che stava facendo insieme a loro come "sovrapproduzione indiscriminata". La mise sul piano umoristico. Eppure Taylor ricorda un elemento di complessità che riguardava se stesso.
«È dura con Roy!» dice. «Aveva una grande conoscenza dello studio e aveva lavorato su cose di Mark Bolan, che sembravano ottime. Era divertente, un bon viveur, il che stava molto bene con noi. Ma poteva essere davvero spietato. A volte facevamo infiniti take per ragioni che non riuscivo a capire. Era Roy che faceva finta di essere un perfezionista».
L’avevano finito in un mese. Questo, data la complessità dei Queen, dimostra il loro vorace appetito per il lavoro. Brian May ricorda i momenti in cui si rese conto che avevano ottenuto qualcosa di significativo.
«C'è un posto da qualche parte nel mezzo di Father To Son – penso che sia l'inizio della seconda strofa – in cui improvvisamente irrompe l'intero esercito di chitarre. E questo, per me ... ricordo di aver sentito quel ritorno – e non sono neanche sicuro di quanti chitarre ci siano là, probabilmente in doppia cifra – e per la prima volta ho sentito che orchestra di chitarre tornava verso di me, ed era quello che avevo sognato di fare da quando avevo sentito Jeff Beck in Hi Ho Silver Lining. Quello era ciò che volevo nella mia testa. C’è un momento in Black Queen quando qualcosa di simile accade con le voci. Vengono sparate tutte dentro, e ci sono queste chitarre a cascata. È come Mantovani – non so se qualcuno sappia più chi sia Mantovani, ma quel tipo effetto con campane a cascata era nella mente sia di Freddie che mia. Io l'ho fatto con le chitarre e Freddie lo ha fatto con le voci insieme a Mike Stone, proprio prendendoli dal banco mixer. Improvvisamente ti rendi conto che ci sono come migliaia di voci che vengono verso di te da tutti i lati».
«Abbiamo voluto fare le cose in grande», concorda Taylor. «Abbiamo voluto testare lo studio per dimostrare a noi stessi quanto lontano potessimo arrivare. Ci sono un paio di tracce – The Fairy Feller’s Master–Stroke, che non sono è il massimo come mix, ma tecnicamente e vocalmente è incredibilmente complesso, con questi ammassi di armonie che si sovrappongono l'una con l'altra. Era un pezzo complesso di musica. L'album veramente veniva da tre anni di forgiatura del duro lavoro nelle prove, suonando insieme, lavorando insieme», dice. «Abbiamo avuto tutti le nostre diverse influenze, molte delle quali sono le stesse e, con le nostre quattro personalità, questo è quello che ne è venuto fuori. A quel punto Freddie era abbastanza dominante con i suoi testi. Era quello che scriveva cose molto complicate. Era proprio il modo in cui funzionava il suo cervello. Era davvero splendido».
Il disco finale ha una struttura che non era evidente mentre veniva fatto. Come autori principali, May e Mercury avevano prodotto, in buon modo, un lato di musica ciascuno, anche se non sono stati separati in questo modo fino alla definizione della tracklist finale, che è stata compilata dopo che le registrazioni erano terminate.
Quello che c’è di sorprendente è quanto avevano in comune: White Queen (As It Began) e The March Of The Black Queen condividono una storia d'amore che è stata codificato nel profondo delle loro strutture barocche, e sia May in Father To Son, sia Mercury in Nevermore erano quasi, come li descrive Taylor, "sentimentali". Anche se la musica era grandiosa e molti dei testi fossero gotici e fantastici, c'è una vena profondamente sentimentale che attraversa i Queen, che continuerà per tutta la loro carriera, da Love Of My Life in A Night At The Opera fino al loro canto del cigno These Are The Days Of Our Lives del 1991.
Quasi tutto su Queen II gettava le basi che avrebbero collegato i Queen al loro futuro, anche mentre si accingevano a lasciarsi alle spalle parte degli eccessi. Nei cori di voci ammassate in Father To Son e The Fairy Feller’s Master–Stroke si gettano i semi di Bohemian Rhapsody. L’immensa forza di Ogre Battle e The March Of The Black Queen sono antecedenti a Brighton Rock, Sheer Heart Attack, We Will Rock You e Death On Two Legs (forse l'unico album dei Queen che si avvicina Queen II in termini di vera e propria pietra miliare è il concerto in tour de force Live Killers del 1979).
Queen II ha anche rimarcato i Queen come una band capace di scrivere dei singoli di successo. Il loro primo tentativo, Keep Yourself Alive, aveva fallito l'anno precedente. Questa volta non ci sarebbe stato nessun errore. Nascosto alla fine dell'album, Seven Seas Of Rhye era un piccolo tema epico che fa riferimento sia mitologia greca che all’umorismo balneare britannico. Fondamentalmente, la band l’ha scritta appositamente perché fosse un successo. «Ci abbiamo messo tutto, nel modo più indiscriminato », dice May. «La "pressione" non è il termine giusto, era più un "vorremmo avere il nostro singolo che suona alla radio, quindi cerchiamo di non dare loro alcuna scusa per non farlo"». Pubblicata nel febbraio del 1974, quindici giorni prima del suo album di provenienza, Seven Seas Of Rhye ha raggiunto la posizione n°10 nella classifica britannica – il primo di una incredibile serie di 46 singoli nella Top 40.
Questo desiderio di avere tutto pianificato nei minimi dettagli, per non lasciare nulla al caso, era radicato in profondità nell’album Queen II.
«Stavamo cercando di spremere un intero mondo in due solchi di vinile», dice May. «È insolito, e siamo stati insoliti. In seguito abbiamo fatto un'inversione ad U, e l’album Sheer Heart Attack [registrato pochi mesi dopo e anch’esso pubblicato nel 1974, ndr] è molto lineare, non è niente affatto così strutturato. Sheer Heart Attack ha un’attenzione in continuo movimento che è molto chiara, mentre Queen II è un'immensità in cui ci si può immergere». Queen II è stato qualcosa di più della somma delle sue parti. C'era all’opera una immaginazione estetica più ampia nel suo uso del bianco e del nero per i due lati, ed i temi ricorrenti delle regine e, come la chiama Taylor, c’è una «faery – con una "e"».
«È stato concepito per essere quasi uno stile di vita», dice. «Ci piaceva l'idea. Abbiamo messo una sorta di... la maggior parte delle cose più complesse sul lato nero, o il lato oscuro, e la maggior parte delle cose più leggere sul lato bianco. Era una sorta di concept in un certo senso, ma molto vago. La gente metteva lo smalto nero alle unghie di una mano e quello bianco sull’altra. È stato bello vedere lo stupore a cui andava incontro il personale delle compagnie aeree quando vedeva un ragazzo con le unghie dipinte ed il fatto che indossassimo scandalosamente, direbbero alcuni, vestiti effeminati. Ed abbiamo avuto la copertina nera con l’interno bianco, e così via. Questo è ciò che indossavamo sul palco, solo bianco e nero. Era un bel contrasto e risultava più efficace con le luci. Non abbiamo indossato i jeans sul palco, mai». [non agli inizi, ma al Live Aid sì. ndt]
Confezionato in una copertina con una fotografia di Mick Rock – una singola immagine illuminata dall’alto ricreata da una foto dell’eroina di Freddie Marlene Dietrich – che più tardi avrebbe formato la base per il video di Bohemian Rhapsody, Queen II è stato pubblicato l'8 marzo 1974. Le recensioni furono miste, con grande disappunto della band. Maledicendolo con debole lode, Rolling Stone ha applaudito il 'Side White" come "piuttosto carino", mentre Record Mirror lo ha definito "la feccia del glam rock". In modo più spiazzante, Crema lo ha definito "inefficace" e Melody Maker ha detto che non aveva "nessuna profondità del suono".
«Ci hanno segnati», dice Taylor. «Dopo un po’ siamo diventati immuni, perché abbiamo pensato "vaffanculo, siamo indistruttibili". Ma ne abbiamo tenuto conto. Avevamo lavorato molto duramente per produrre un disco interessante, molto intricato, con delle registrazioni innegabilmente abbastanza avanzate. Non riesco a ricordare quello che dissero, ma sì , ci hanno fatto incazzare per davvero. Non veniva concesso di dimostrare la propria ambizione in quei giorni, il che è stupido. Una cosa molto inglese, una cultura dell’invidia. È un atteggiamento molto strano che hanno gli inglesi. E c'era un elemento di commedia in tutto quello, davvero».
«Guardando indietro a ciò che è successo, penso che abbiamo avuto un comune senso dell'umorismo, che fu molto prezioso», dice May. «Abbiamo avuto modo di affrontare il mondo, perché ti ritrovi sotto un sacco di attacchi e il senso dell'umorismo molto spesso ci ha fatto superare l’ondata. Stranamente, ho capito nel corso del tempo che il senso dell’umorismo di Freddie era sottovalutato. Non credo che si siano resi conto di quanto era disposto farsi prendere per il culo. Aveva una grande capacità di vedere se stesso con leggerezza – "è solo carta da formaggio, mia cara". Lui fu il primo ridimensionarsi, piuttosto elegantemente, perché era considerato come piuttosto pomposo all’inizio. Fu un totale fraintendimento. Lui era ben consapevole del personaggio che stava creando».
I Queen sono riusciti a distillare la densa massa di idee in canzoni che fossero suonabili dal vivo. Sperimentarono versioni semplificate di The March Of Black Queen, Ogre Battle , Father To Son e Seven Seas Of Rhye in uno show di preparazione al Golders Green Hippodrome, registrato dalla BBC, prima di andare in tour con i Mott The Hoople, segnando la prima volta che la EMI fissò una imposta di licenza per i propri artisti, tra £3.000 e £510.000 a seconda di chi si andasse a richiedere. Nonostante il divertimento iniziale dei Mott nel vedere i Queen organizzarsi per delle prove volte a rendersi efficaci su un palco completamente allestito, le band si amalgamarono bene sia in scena, dove il rock gotico pesante dei Queen ha offerto un bel contrasto con il buon glam dei Mott, e così via . Le band viaggiavano insieme su un autobus. Il pianista dei Mott, Morgan Fisher (che sarebbe poi andato in tour con i Queen come tastierista), li ricorda come «ossessionati dal loro lavoro e con il bisogno di tirare fuori quello che avevano in sé».
«Andare in tour era molto diverso allora» dice Taylor. «Gli alberghi erano una merda in questo paese. L’unica cosa che trovavi erano i Trust House Forte. Si poteva trovare un panino dal portiere notturno. Abbiamo imparato un po' dai Mott. Quando siamo arrivati in America, agli Holiday Inn sembrava così lussuoso. Non eravamo un gruppo di urlatori, ma usavamo aprire dal retro per chiunque volesse venire a bere qualcosa – ci ritrovavamo con centinaia di persone. È stato divertente…».
«Abbiamo fregato un sacco di idee su come stare sul palco ai Mott. Idee molto semplici ora, ma sulla dinamica. Ian [Hunter, ndr] era molto bravo in questo e i Mott erano una buona band di rock'n'roll. Ci piaceva fare a gara con loro. Avevamo circa mezz'ora soltanto e Liar da sola era lunga probabilmente otto minuti ... Dicevamo che avremmo fatto giusto un paio di canzoni più forti e poi saremmo andati via – sperando di ottenere un bis. Penso che Ian non fosse sicuro di concedercelo».
Non sempre sono riusciti a farne uno. Taylor ricorda che le reazioni sono state miste, «una sera andava bene e l’altra magari non tanto». In parte questo era dovuto al contrasto fra la sfidante e deliberata immagine androgena della band con la folla più grezza di quell’epoca. I body e lo smalto erano poco accettati da parte di un gruppo spalla e la versione dal sofisticato umorismo di Hey Big Spender di Shirley Bassey che si ostinavano a suonare lo era forse ancora meno. A volte era troppo , anche per un naturale esibizionista come Mercury.
A Liverpool, sbagliò nello scegliere cosa dire al pubblico. Gli venne un «Nice one, Kevin», un riferimento calcistico che aveva trovato sul Liverpool Echo che ha generato una piacevole esplosione di risate. Al Town Hall di Birmingham, a Mercury un contestatore gli disse «Cazzo, scendi da lì, fighetta che non sei altro...» prima ancora che avesse aperto bocca e fu successivamente colpito da un hot dog lanciato dalla platea. Eppure gli spettacoli finali del tour, all’Hammersmith Odeon, sono stati due dei loro migliori e più gratificanti. La madre e il padre di Brian erano tra il pubblico nel secondo di essi e rimasero stupiti quando si ritrovarono a firmare autografi. I Queen conclusero la serie di spettacoli convinti che la prossima volta che avrebbero fatto un tour nel Regno Unito sarebbero stati gli artisti principali [e non di supporto, ndt].
Seguì uno spiazzante viaggio in Australia, dove la band era stata mal prenotata per una festa a Melbourne. L’idea del Sunbury Rock Festival era per lo più orientata ai rockers da pub di giornata australiani – Buster Brown, Daddy Cool, Madder Lake – che si erano portati dietro il proprio seguito. I Queen insisterono per avere il proprio impianto luci, sollevando le ire locali e poi si ritrovarono immischiati con i Madder Lake impegnati nel loro momento. Il presentatore chiese alla folla: «Volete questi bastardi inglesi o volete un gruppo rock australiano?». Si dice che i Queen vennero fischiati e cacciati dal palco, anche se questa rimane una voce controversa. Vi furono certamente dei fischi quando Mercury annunciò che la prossima volta che i Queen sarebbero venuti in Australia l’avrebbero fatto come «la più grande band del mondo» . Taylor ricorda poco della manifestazione, ma ricorda le due Mercedes con le quali andavano in giro, con grande disgusto della gente del posto. «Freddie naturalmente amava farlo. Era tremendamente divertente».
Fu tutto brevissimo. A luglio erano di nuovo in studio a lavorare all’album Sheer Heart Attack. È uscito nel novembre del 1974. A quel punto avevano già iniziato le registrazioni di A Night At The Opera. Il suono di entrambi i dischi ha avuto la sua genesi in Queen II.
I Queen non sono più stati insieme nella loro formazione originale dopo la morte di Freddie Mercury 23 anni fa e i quattro divennero due nel 1997, quando John Deacon si ritirò dal mondo della musica e si ritirò dalla vita pubblica. Si sono già esibiti con George Michael, Adam Lambert, Axl Rose e Paul Rodgers come cantanti, mantenendo sempre un senso di tradizione e continuità, cosa che non c’è in altre band che hanno perso i membri principali. La consapevolezza del loro nome e della musica penetra in profondità nella cultura più ampia in un modo che gli altri giganti del rock degli anni 1970 non hanno. Vostra nonna sa chi sono i Queen. In realtà anche la Regina sa chi sono i Queen. May e Taylor hanno curato un patrimonio vivente che ha eluso quasi ogni altra band della loro epoca. Loro si distinguono nella musica rock e tuttavia si intrecciano in profondità nella sua storia.
Di tutti i loro dischi, Queen II è quello che molti fan e musicisti indicano come un momento decisivo non solo per i Queen, ma anche per come è cambiata la musica heavy rock. Axl Rose , Billy Corgan e Steve Vai hanno rivendicato il disco come una loro influenza e la sua profondità è tale che è possibile ascoltare elementi di esso diversificati nei loro lavori – Corgan lo ha definito «un album che ha cambiato la mia vita», Rose ha detto che «mi ha aperto la mente», Steve Vai ha detto di aver sentito che era «un momento cruciale».
«Ricordo che un pomeriggio discutevamo con Roy Baker in studio e lui disse: "Che cosa succede se questo sarà un flop"», ricorda Taylor. «Gli dissi che non sarebbe stato un flop. E lui disse: "Ma cosa succede se avviene? ". Ho detto "Beh, Roy, non penso che sia un ottimo modo di pensarci..." Abbiamo avuto un sacco di fiducia in noi stessi, non so perché. Davvero, era molto di più per la nostra integrità musicale. Quello è ciò che stavamo cercando. Non volevamo particolarmente tutti i crismi. Stavamo solo pensando a quello che volevamo ottenere. Questo è qualcosa che credo sia cambiato molto. La gente ora vuole una gratificazione immediata, di essere inondato con Bentley e avere una casa a Hollywood o sulla Saint George's Hill. Non era quello che cercavamo noi».
Ciò che cercavano – quel suono grandioso e classico che li separava musicalmente – è durato in altri modi diversi.
«Non è andato via», dice Brian May. «Avevamo un desiderio, e ancora ce l’abbiamo, di creare qualcosa di straordinario. Creare dei momenti unici, che non si potessero replicare, nei dischi, nella vita; è quello che ci entusiasma. Lo perseguiamo con grande vigore. Può sembrare eccessivo, ma è come per l'alpinista, il brivido di esplorare nuovi territori».
Taylor concorda: «Molto di tutto quello era parte di Freddie. Aveva questo straordinario slancio. Diceva sempre: "Miei cari, non vi preoccupate, il talento verrà fuori". E presumo che si sia verificato».