Con l’ennesimo tour mondiale sold-out dei Queen in corso, Brian May ricorda la vita on the road di un tempo, racconta a Simon Bradley come sia cambiato il modo di vivere questa realtà e rivela che la tecnologia moderna ha migliorato il proprio sound.
di Simon Bradley, per The Guitar Magazine vol.29 n.4 – Gennaio 2018
Traduzione in italiano di Claudio Tassone per Comunità Queeniana Italiana
Così come aumentò la loro grandezza degli anni a seguire, la stessa cosa avvenne per i luoghi in cui avrebbero suonato. Ad esempio, il 20 marzo 1981 un impressionante pubblico di 131.000 fan scatenati di recarono a vederli al Morumbi Stadium di São Paulo, e la formazione storica della band al suo ultimo spettacolo ─ ora sappiamo essere stato quello al venerato Knebworth Park, che ebbe luogo il 9 agosto 1986 ─ vide la partecipazione di una folla di 160.000 persone.
Un ovvio ostacolo, che qualcuno definirebbe insormontabile, alla continuazione dell’opera da parte di questo rullo compressore da tour è stato la perdita dell’inarrivabile Freddie Mercury nel 1991. Il fatto che la band dovesse essere destinata al riposo con la scomparsa del più straordinario dei cantanti resta ancora oggi un argomento scottante.
Ad ogni modo, i Queen ─ band che dei membri originari ora comprende solo Taylor e il chitarrista Brian May, dopo il ritiro del bassista John Deacon ─ hanno intrapreso tre tour di fila con Paul Rodgers dei Free, prima di unire le forze con Adam Lambert, un cantante molto più vicino al modello di Mercury.
«Spesso penso che Freddie l’avrebbe amato e odiato allo stesso tempo!», afferma il sempre cordiale May.
«Adam è un grande showman e riesce a prendere quelle note alte senza perdere in nessun modo qualità o potenza. Le cose che riesce a fare sono davvero sbalorditive. Devo dire che è straordinario.»
Il tema della loro spettacolare produzione è basato sull’album News Of The World del 1977 e la sua iconica copertina realizzata dal noto artista del genere fantascientifico Frank Kelly Freas, che presenta un robot insanguinato.
Nel momento in cui parliamo con May, la band si trova in un momento di pausa fra la leg in Nord America del tour e quella in Europa. Lui si affretta a parlarci dell’origine di quell’idea.
«Casualmente qualcuno mi disse che era il 40° anniversario di News Of The World, ma non ne ero interessato; è sempre l’anniversario di qualcosa! Ma poi guardai la copertina dell’album un’altra volta e pensai che sarebbe stato bellissimo riportare in vita quel robot, così facemmo in modo che ciò avvenisse. Non penso di anticipare molto se dico che quel robot apre lo spettacolo sfondando lo schermo: è colossale e alla gente piace.»
Nonostante i pezzi di apertura di News Of The World, vale a dire We Will Rock You e We Are The Champions, siano stati in pianta stabile per decenni nella scaletta dei Queen dal vivo, la band ha rispolverato un paio di canzoni più rare per questa occasione, vale a dire It’s Late e Spread Your Wings. Ad ogni modo, come ci spiega May, nessuna delle due è arrivata alla fine della serie di concerti nel Nord America e, considerando la statura globale della band, è interessante notare quanto oggi la set list sia completa. May prosegue:
«Pensavo che Spread Your Wings sarebbe stata un immenso successo con il pubblico, perché è tutta un coro da fare insieme, ma la scintilla non è scoccata, così l’abbiamo esclusa dopo qualche spettacolo. Forse era più adatta all’Europa che non all’America, per cui è possibile che consideriamo l’ipotesi di reinserirla nello spettacolo e vedere come va da queste parti.
It’s Late è una canzone epica che richiede un’immensa dose di concentrazione per eseguirla, però mi piace. È venuta davvero bene e la ragione per cui non l’abbiamo fatta negli ultimi spettacoli è che la troviamo estenuante, tanto per noi quanto per il pubblico.
Credo che ci sia una durata ottimale per lo spettacolo, entro la quale si riesce a mantenere alta I’energia e quel limite è una linea sottile. Non siamo una band che suona per quattro ore ogni sera e quindi, nel riadattare lo spettacolo, It’s Late è stata fatta fuori alla fine della serie di concerti americani».
È una produzione spettacolare ed immensamente piacevole, una di quelle che la maggior parte dei fan dei Queen si potranno godere e ricorderanno a lungo, indipendentemente da chi c’è al microfono.
L’impianto sonoro di May è sempre stato spinto ai massimi livelli e, al giorno d’oggi, il suo treble booster KAT fornisce già di suo un incremento del segnale di 31dB. Il sistema wireless Sennheiser aggiunge altri 6dB con l’aggiunta di qualche dettaglio cromatico al suono. Avendo sperimentato in prima persona la devastante potenza del volume magistralmente gestito, conveniamo con sorpresa che è possibile spingere ancora oltre un AC30.
Ci assicura: «Fa la differenza. Migliora il sustain, specialmente al limite superiore della chitarra, e ne sono diventato in qualche modo dipendente. Cerchiamo di riprodurre con dispositivi analogici quella botta extra e quel tipo di compressione, ma alcuni di questi sistemi digitali sono davvero ottimi, buonissimi, e non si riesce altrimenti a raggiungere una tale compressione. Ma io ne ho bisogno e ora in questo modo ci riusciamo».
E quindi ora non è possibile rinviare o evitare la domanda da un milione di Dollari: questo sarà l’ultimo tour dei Queen, almeno di questa dimensione? May ha pronta la sua risposta:
«Non ne ho idea», dice con una risata criptica, «Non credevo che a questo punto saremmo stati ancora qui a fare queste cose. È uno spettacolo corposo e buono. È quanto di più spettacolare, grande e potente abbiamo mai fatto.
Il numero 70 è molto significativo. Non riuscivo a immaginare come mi sarei sentito a questa età. Mi guardo allo specchio e penso: “70!? Ma davvero?”, perché dentro mi sento come se ne avessi 35. È impegnativo; i 60 + 10 rappresentano la vita media di un essere umano e tutti quello che arriva dopo di questa età è un tempo bonus».
Mentre ci salutiamo, chiediamo a May di rimarcare la validità e la rilevanza dell’attuale tour per chiunque fosse rimasto ancora indeciso.
«È la cosa più grande, spettacolare e potente che abbiamo fatto negli ultimi 40 anni», riassume in poche parole. «Si tratta di canzoni che sono vive in tutti noi; non sono pezzi da museo, e credo che il segreto sia proprio questo.»
La leg nel Regno Unito del tour europeo Queen+ Adam Lambert è iniziata il 26 novembre 2017.
L’amica costante di May è stata la chitarra che ha costruito insieme a suo padre: la Red Special. Completata nell’ottobre del 1964, va incredibilmente ancora fortissimo e, nonostante le repliche costruite da Andrew Guyton e Greg Fryer, resta l’unica chitarra che voglia suonare. Ma avrà mai considerato seriamente di mandarla in pensione?
«No. C’è qualcosa di speciale in lei», insiste. «Le sue copie di cui ora sono in possesso sono favolose e se sono sul palco in mezzo alle luci posso dimenticare quale stia suonando. Ma c’è una magia particolare in lei, e altre cose che non potrei fare così bene con nessun’altra chitarra se non con l’originale. Nessuna chitarra è identica alle altre. Ci sono piccole cose che non si possono replicare, piccole cose impercettibili nel suono e nelle sensazioni che derivano dal suonarle. La Red Special vivrà quanto me!».
Ma sicuramente ci saranno stati momenti di pericolo nel corso degli anni?
«In un’occasione…», fa una pausa prima di continuare, «ci fu un ragazzo che faceva da nostro pubblicitario che pensò potesse essere divertente fingere che la chitarra fosse stata rubata. Nessuno mi disse di questa cosa e montarono una storia; fu molto imbarazzante. Comunque no, la chitarra è sempre stata in buone mani con la mia meravigliosa squadra e sono molto grato a loro per questo. Viene trattata come polvere d’oro. È come se fosse una parte di me, come un mio arto. Amo quella chitarra.»
QUESTIONE DI POLARITA'
Durante la costruzione della Red Special, May e suo padre progettarono e realizzarono tre pick-up partendo da materiale di risulta. Per uno dei pochi difetti di costruzione dell’intera chitarra, andò a finire che non funzionassero proprio come si aspettavano e vennero sostituiti con dei Burns Tri-Sonics. Si pensava che fossero andati perduti, ma le unità originali vennero ritrovate in un cassetto dell’archivio dei Queen all’inizio del 2017, e questa è la loro prima immagine ufficiale.
Brian ci parla della loro nascita …
[ * ] «Mi era chiaro il loro principio di funzionamento, per cui acquistai dei piccoli bottoncini magnetici Eclipse in un posto a Kingston [upon-Thames], li avvitai a un blocchetto, gli misi una sagoma attorno e gli avvolsi intorno quanti più giri di filo di rame da 50 mi fu possibile. Io e mio padre costruimmo un piccolo bobinatore per fare questo. [ ** ] All’esterno c’è una striscia di laminato in plastica, con un top di Formica bianco e il tutto è fissato ed incassato in modo molto ordinato.
[ *** ] Era tutto straordinario, ma c’era un punto debole: io volevo flettere le corde con il bending, ma si creava una strana sorta di fruscio che interferiva. Penso che la polarità Nord fosse troppo vicina al polo Sud del magnete successivo nella serie, a creare un campo fra di esse tale da non creare disturbi in condizioni normali, ma che generava il problema quando una delle corde che io flettevo si avvicinava. Per cui quando una corda finiva in quel campo magnetico così intenso ecco che il problema si presentava, ma non sono sicuro del perché!».
Il risultato fu che i pick-up vennero cambiati con delle unità Burns, e il resto è storia del rock ‘n’ roll!
Deve esserti sembrato strano riavere di nuovo in mano questi pickup…
[ Brian May ]
Sì, temevo che non li avremmo più ritrovati: era una di quelle cose che ti rodono dentro in certi momenti. È bellissimo che Pete li abbia trovati, ed eccoli qui; questa cosa mi rende molto felice. Osservandoli mi tornano in mente un sacco di cose. Naturalmente erano una delle caratteristiche originali della chitarra e funzionavano davvero bene.
Ne abbiamo già parlato in precedenza, ma potresti ricordarci come hai affrontato la loro progettazione e costruzione?
Avevo compreso che il principio di funzionamento dei pickup doveva essere un avvolgimento di filo elettrico attorno a dei magneti, creando così un campo magnetico. Quando le corde vibrano all'interno di questi campi magnetici causano un cambiamento nel flusso collegato agli avvolgimenti; un fisico lo descriverebbe così. Quando questo flusso si modifica si ottiene un campo elettromagnetico dalle bobine che crea una corrente, quella che viene poi amplificata per rendere elettrificata la chitarra. [ ... omissis * riportato nell'articolo principale, ndt ] Bisogna essere estremamente delicati nell'avvolgere un cavo elettrico da 50, perchè è sottile come un capello umano e se viene rovinato ne risente l'intero avvolgimento. [ ... omissis ** riportato nell'articolo principale, ndt ]
Avete anche trovato un modo con tuo padre per collegarli nella chitarra senza usare il saldatore...
Ecco, quella è un'altra invenzione che non ho mai rivendicato. La maggior parte dei pickup in commercio hanno due fili che spuntano verso l'esterno e serve saldarli [a stagno, ndt] all'interno della chitarra. Per cui la mia invenzione è stata, invece di fare in quel modo, i cavi non fossero lasciati penzolanti in quel modo, ma collegati a due viti di fissaggio dei pickup. Nel momento in cui gli interi blocchetti venivano avvitati sulla chitarra avrebbero collegato le bobine dei pickup all'elettronica della chitarra, senza bisogno di saldature. È un modo molto ordinato di fare questa operazione e permette di sostituire i pickup velocissimamente e con estrema facilità senza modificare in nessun modo i cavetti elettrici. Andavo molto fiero di questa cosa!
Potresti descrivere il problema al suono che hai notato quando li hai utilizzati?
[ ... omissis *** riportato nell'articolo principale, ndt ] Il suono della vibrazione veniva trasferito, ma si generava un rumore tipo come quando si sfrega un fiammifero per accenderlo sulla scatola. Ovviamente non mi andava bene e non ne fu praticabile l'utilizzo. In base alla mia teoria ipotizzata avrei dovuto gestire le polarità dei magneti dividendoli in due parti. Sfortunatamente non ho mai avuto la possibilità di farlo poichè non avevo l'attrezzatura necessaria. Per tagliare i magneti c'è un procedimento complesso, credo che utilizzino un'acciaio speciale. Non avevo nulla di tutto questo, avrei solamente potuto rompere tutti i denti di un seghetto.
Perchè avevi optato per tre aperture sui pickup invece delle più consuete 6? È strano quanto ricordino i Tri-Sonics…
Beh, dovevano avere tre aperture perchè al loro interno ci entravano solo tre magneti. Erano a forma di bottone con sia il polo Nord che quello Sud in linea, per cui dovevano avere tre aperture invece che sei. Pensai di farli così perchè i poli erano equamente distanziati uno dall'altro ed avrebbero creato un buon campo magnetico, ma in effetti non fu così per via di quello che succedeva sulle polarità Nord quando erano troppo vicine alle polarità Sud nella serie. Il campo magnetico creato era troppo limitato nello spazio da questa vicinanza. Questo non andava bene, perchè il campo magnetico doveva arrivare fino alle corde. Non ne sono certo, ma qualcosa scaturiva nel suono quando la vibrazione delle corde raggiungevano quel forte e concentrato campo magnetico.
Ripensandoci oggi, penso che sarebbe stata cosa giusta rivedere quei pickup e fare le modifiche necessarie: dividere i magneti in due, metterli posizionati in modo che i poli Nord fossero allineati fra di loro e vedere che suono ne sarebbe derivato.
Come mai hai usato quelle coperture bianche? Sono davvero azzeccate!
Avevo solamente quella formica bianca e mi piaceva il suo aspetto. All'inizio pensai che fosse molto bella. Inoltre l'idea che non coprissero i pickup, ma che li avrebbe messi in evidenza, mi piaceva. Stranamente non mi piacevano più successivamente. Ricordo che quando vidi le foto che mi inviarono da Putney decisi di verniciarle coprendo il bianco, perchè pensavo che non fossero belle!
Mi dicesti che hai alcune registrazioni di quel suono da qualche parte...
Infatti, so dove si trovano...
È una bella notizia! Come hai amplificato la chitarra per registrarla all'epoca?
All'epoca utilizzai un preamplificatore che collegavo direttamente nell'amplificatore che inviava il segnale al nostro registratore a doppia traccia (invertibile) Collaro. Il registratore a nastro aveva tre regolazioni di velocità: 15, 7½ e 3¾ Pollici al secondo. Quel che avveniva era che rallentando la velocità di avanzamento si attenuavano i suoni alti. Questo avveniva perchè il registratore non era efficiente, per cui nel momento in cui passavo da 15 Pollici a 3 e ¾ c'era bisogno di compensazione. Il preampli aveva tre diverse regolazioni per le tre velocità. Se lo si faceva andare a 3 Pollici e ¾ veniva aggiunta una gran quantità di suoni alti. Era come un'equalizzazione brutale, proprio ciò che mi piaceva. Era il precursore del treble booster che poi utilizzai fin da quando incontrai Rory Gallagher.
Per cui, collegavo la chitarra al preampli, regolandolo sui 3 Pollici e ¾ in maniera da darmi il boost necessario sugli alti, passando quel suono attraverso l'amplificatore costruito da mio padre che utilizzavamo per il giradischi, il mangianastri, la radio e quant'altro. Ecco qual era il mio piccolo sistema audio. E ricordo che quando alzavo al massimo il volume mia madre si preoccupava molto dei nostri vicini. Ma era quello il suono che volevo ottenere, quello che avrei portato in scena. Ancora una volta c'erano dei limiti in quanto al bending, il cui suono non andava come avrebbe dovuto, ma grazie a questa equalizzazione c'erano dei bei suoni bassi e anche gli alti erano buoni.
E quali diffusori utilizzavi?
Penso che fosse solo un altoparlante Wharfdale fissato in un contenitore che aveva costruito mio padre.
Magari potresti montare questi pickup su una chitarra? Forse su una replica Guyton o una BMG Super?
Avevano un suono particolare. Ora mi chiedo cosa avrebbero aggiunto alla chitarra se potessimo tornare indietro nel tempo. Stranamente, entrerebbero ancora sulla chitarra originale poichè le basi su di essa sono rimaste invariate rispetto ad allora. Per cui si potrebbe fare.
Fonte: www.theredspecial.com - 5 gennaio 2018
Su nostra richiesta, May torna con la mente al primo tour di rilievo della carriera dei Queen, alla fine del 1973 in supporto ai Mott The Hoople, i glam britannici dell'epoca.
«Eravamo ben al corrente di cosa volesse dire fare parte del mondo della musica», racconta del loro approccio a quel tempo. «Già discutevamo del fatto che non sarebbe stato come suonare in presa diretta nello studio e che avremmo dovuto massimizzare il nostro contatto con il pubblico. Volevamo essere spettacolari, per cui parlavamo di come vestirci, delle luci, della qualità del suono, perfino della forma del palcoscenico, nonostante fossimo una band di supporto e non avremmo avuto il controllo di ciò. Sapevamo che stavamo costruendo qualcosa: il nostro sogno, se ti pare».
In questi giorni l’impianto audio di May è tanto affidabile grazie alla tecnica avanzata che abbiamo descritto nel numero di agosto 2016 della rivista The Guitar Magazine, ma non potevamo immaginare che potesse essere la stessa cosa a quei tempi.
«Oh, hai pienamente ragione!», May scoppia in una risata. «No, agli inizi facevamo tutto da soli: trasportavamo i nostri amplificatori e tutto il resto, ma era difficile trovare dei tecnici che avessero la minima idea di ciò che si dovesse fare. Ho avuto un ragazzo con me, e non farò menzione del suo nome, il quale mi regolava gli amplificatori. Ne avevo solo due a quei tempi. Quando andammo a sistemarci, credo che fosse a Liverpool, lui disse: “È tutto davvero bello, ma hai presente quella scatoletta posizionata sopra gli amplificatori? Beh, l’ho perduta, ma non penso che fosse importante perché ancora si sente benissimo…”. Era il treble booster e sarebbe stato impossibile suonare senza di esso, perché cambia completamente la caratterizzazione del suono: un AC30 è completamente debole senza uno di essi. Non ricordo come facemmo, ma in quel momento ho capito che avevo bisogno di trovare qualcuno che fosse competente per prendersi cura del mio impianto».
Come abbiamo potuto vedere, i Queen non ebbero più bisogno di fare da gruppo spalla per il resto della loro carriera, dal momento che il pubblico e i luoghi in cui suonarono divennero sempre più ampi. E la stessa cosa avvenne per il “muro” di Vox AC30 impiegati da May. Nel periodo in cui fu al suo massimo, la fila di amplificatori raggiunse un numero di non meno di 12 di quelle inconfondibili combinazioni, con altre unità ancora a disposizione come ricambio.
«Beh, gradualmente il numero aumentò, ma il principio era lo stesso. Le attrezzature per la chitarra aumentarono sempre di più perché ero io a volerlo!», ride.
«Penso che ogni chitarrista voglia sempre qualcosa di più grande, perché questo consente di avere tantissimo sustain e pienezza del suono. Ma ciò che accade è che non appena inizi a suonare in un posto più ampio di un teatro capisci che il suono sentito da te mentre lo imposti non è poi lo stesso che di fatto esce dagli amplificatori. È un suono riprodotto e passato attraverso il sistema dei monitor. Per cui, nonostante io ampliassi la pila di amplificatori sempre di più, ero conscio che ciò che davvero avrebbe dato la resa al mio lavoro sarebbe stato il mio modo di interagire con il suono prodotto dai monitor. Pertanto, per far sentire la chitarra come desideravo, iniziai a riempire di monitor l’intero palco.»
Fat Bottomed Tone
«Sono stato un tipo ansioso su questo aspetto, almeno fino al 1986», confida mestamente. «Non ero soddisfatto se prima non passavo 45 minuti con le chitarre, a riaccordarle e riscaldarle. Ripensandoci adesso, non penso che fosse neppure necessario poiché avevo un ottimo ragazzo che era perfettamente capace di farlo da solo, ma penso che quei momenti mi dessero una sensazione di sicurezza. Oggi non lo faccio più; passo più tempo ad assicurarmi che non mi cadano i pantaloni…».
Il percorso del segnale generato dalla chitarra di May è rimasto virtualmente invariato rispetto ai primissimi tempi: la sua chitarra autocostruita – ingresso nel treble booster e dei minimi effetti – poi va in un certo numero di AC30 – e, anche se ha utilizzato differenti tipi di booster nel corso degli anni, non sente che il proprio sound sia alterato di molto.
«Ho iniziato con un [Dallas] Rangemaster, ma ad essere onesto da allora ad oggi non c’è tantissima differenza», conferma.
«La cosa che è cambiata per davvero è il fatto che ho smesso di utilizzare i sistemi cablati e ho iniziato con quelli wireless. Ci siamo dovuti mettere duramente a lavoro per riprodurre il suono generato con il collegamento via cavo, ed è stato possibile incrementare un po’ il guadagno in maniera da ottenere un po’ di spinta extra. Dopo un po’ ho capito che avevo bisogno di quel boost ascoltandomi alla radio. È come un’aggiunta di zucchero! Perciò quando oggi sono in studio e mi collego con i sistemi tradizionali utilizzando i cavi sento che è come se a volte non avessi abbastanta guadagno, e di fatto passo ad utilizzare il radiotrasmettitore.»
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